La mia storia


C’è chi nasce con la camicia e chi nasce con i capelli rossi. Gli altri sono normali. Non sono normale, non ho una villa a Malibu né un attico ai Parioli… ho i capelli rossi. A scuola subivo con sofferenza i richiami letterari a Rosso Malpelo (Giovanni Verga) e Pel di Carota (Jules Renard), ma mi indispettivano di più le punzecchiature canzonatorie ispirate da quel personaggio televisivo che di nome faceva Pippi (peggio di così...).

Ma avevo i libri. Da Mompracem a Macondo la strada è stata lunga, tuttavia annoveravo come compagni di viaggio personaggi, talvolta in verità un po’ ingombranti, che di cognome fanno Borges, Mann, Hesse, Conrad, Proust, Calvino... Ho divorato biblioteche intere e non solo quella, fornitissima, di casa mia; pur di essere lasciata in pace a leggere mi nascondevo nei più lontani armadi armata di torcia elettrica.

Da Alice, quella del paese delle meraviglie, per imitazione, ho imparato a parlare da sola. Il proprio io è unico per definizione, ma non cessa mai di essere sorprendente e si fa sempre più esigente. È una sfida continua dialogarci quotidianamente.

I libri sapevano popolare il mio mondo di amici, mi regalavano avventure, nutrivano la mia immaginazione e forse in quelle pagine, con quell’odore caratteristico che forse solo io coglievo, e che sicuramente solo io apprezzavo, si trova il germoglio della mia più grande passione: scrivere.

Scrivere per divulgare il bello, per trasmettere la vita. I romanzi sono stati già scritti, il bello e la vita sono ancora lì per chi li cerca.

Il concetto di “familiarità” riguarda l’ereditarietà di un carattere, ma anche l’indole, le attitudini, il vissuto e le passioni insite in ognuno di noi.

Mio padre: il vino.

Mio padre era un artigiano di origine contadina, il suo guantificio nelle colline della Valpolicella era il mio universo: filari di viti per fare il vino per noi e gli amici, alberi da frutta su cui arrampicarsi, muretti per i giochi a rimpiattino...

Le viti, l’uva, il mosto, il vino: odori e sapori che, fin da piccolissima (quindi è proprio “genetico”), mi hanno attratta, affascinata, stregata. La cantina: fucina del miracolo, senza pietra filosofale un frutto diventava inebriante bevanda, nettare irresistibile al tatto, al naso, al palato, elisir di vita. Una vocazione.

Mia madre: il cibo. In cucina dava il meglio di sé, mentre io mettevo il naso e le mani dappertutto; aiutare significava imparare.

Nonno nel suo negozio di alimentari mi ha fatto conoscere i prodotti più tipici e genuini italiani. Per restare in famiglia poi, un cugino era il più rinomato produttore di prosciutto crudo (San Daniele, Parma e Carpegna) con il laboratorio di stagionatura a Lonigo, un altro cugino conduceva con successo una reputata trattoria sui Colli Berici, uno zio aveva una pizzeria a Malcesine. E io apprendevo da tutti loro.

Vino e cibo: la prima università è stata l’infanzia.

Da grande ho sentito l’esigenza di comunicare, districandomi in quell’autentica selva di sentimenti che i sensi stimolano in me. Ne ho fatto un mestiere: assaggiare e raccontare.

Facile? No, difficile. Presentare un dato quantitativo non è mai un problema, ci sono le unità e gli strumenti di misura. Al contrario, nella descrizione del vino, del suo carattere per definizione non misurabile e non quantificabile, e per giunta sempre nell’alea della soggettività, non è consentito dare i numeri. Le parole diventano allora fondamentali per esprimerne l’anima.

Ho viaggiato molto per il piacere di farlo, ma soprattutto per imparare, per dare corpo alle mie competenze tecniche. Mi sono confrontata con enologi, agronomi e sommelier di tutto il mondo, ho studiato sia all’AIS (Associazione italiana Sommelier) sia al WSET (Wine & Spirit Education Trust), ho seguito corsi all’Università di enologia a Bordeaux, mi sono applicata alla potatura con Simonit&Sirch. Ho tessuto molti scambi con degli artigiani del vino che mi hanno catturato per l’espressività fuori dal coro, per la passione travolgente, per la ruvida e pulita naturalezza.

Nel mondo del vino ho lavorato con passione per le guide. Sono stata per cinque anni in Slow Wine e un anno ne I vini d’Italia de L’Espresso, unica donna scelta come co-autrice dei testi in quindici anni di vita della pubblicazione. Dal 2017 sono co-curatrice della Guida Oro i Vini di Veronelli: ad oggi sono la sola donna in Italia a ricoprire questo ruolo di responsabilità, nonché la prima ad averlo in trent’anni di attività di questa guida che, mi piace ricordarlo, è stata la prima del genere pubblicata in Italia.

Insaziabile di liquidi fermentati ho studiato anche all’Università della Birra e ho iniziato a collaborare con la Guida alle Birre d’Italia.

Per il cibo sono andata pellegrinando in tutta Italia con qualche puntata nei paesi limitrofi. Quante ore solitarie in macchina, sotto la neve, nella pioggia scrosciante, nella nebbia più fitta e col sole più torrido per visitare la grande costellazione degli “stellati” più fuori mano. Qui mi permetto di dare i numeri: nello Stivale quattrocento stellati me li sono “masticati” tutti, senza contare i bis e i tris. Andare a scovarmi le trattorie di una volta è stato un chiodo fisso per anni. Per non parlare degli stage nei ristoranti e degli innumerevoli seminari culinari. Ho messo la mia passione anche in qualche libro di cucina.

Attualmente, per le Guide de l’Espresso, partecipo alla pubblicazione “I Ristoranti e i Vini d’Italia” come critica gastronomica.

La passione per il giornalismo mi ha permesso di diventare direttore responsabile di varie testate, arrivando a dirigerne ben sei contemporaneamente (Queen International, Prince, Golf Magazine, Per Voi, Il giornale delle buone notizie, Artigianato Veronese e Piccole Imprese). È stato, quello, un lungo periodo in cui lavoravo sempre, con ritmi serrati, sottraendo tempo al sonno: ho sempre sentito la mia professione come una missione. Non ci si può “togliere la giacca”, si è sempre in servizio.

Il mio lavoro di giornalista libera professionista mi ha portato a collaborare con trentasei diverse testate giornalistiche (tra quotidiani e periodici). Purtroppo molte di queste hanno chiuso a causa delle note difficoltà dell’editoria.

Continuo ad occuparmi, tra direzioni e collaborazioni, di una ventina di riviste, nazionali ed internazionali (puoi curiosare nella sezione “Collaborazioni”).

Chiudo con una citazione presa da Charles Péguy, scrittore francese, che è vicino al mio sentire, alla mia interpretazione della vita.

Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.

Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.

Questo è il mio quotidiano, questo è ciò che condivido con chi mi legge.

Rivista